10 Novembre 2016

Luciano Capicchioni si racconta alla Retina d’Oro

Pubblichiamo una interessante intervista di Luciano Capicchioni rilasciata in occasione della consegna del premio speciale Retina d’Oro 2016.

Fiuto manageriale, mentalità internazionale, spirito d’osservazione e tanta, tanta passione per lo sport più bello del mondo: sono queste le qualità che hanno portato Luciano Capicchioni a costruire una carriera di successo come procuratore e business man, iscrivendolo di diritto tra le figure più influenti del panorama cestistico in Europa e oltreoceano.

Oggi, l’agente di alcuni dei più grandi giocatori internazionali racconta in esclusiva alla Retina d’Oro i segreti di un percorso lavorativo eccezionale e il suo modo, intenso e concreto, di vivere la pallacanestro.

Lei è stato protagonista di una vera “rivoluzione” del basket in Europa, aprendo le porte della NBA a tanti talenti del Vecchio Continente. Cosa l’ha spinta a mettere in atto tale  percorso di rinnovamento?

Ho studiato e vissuto a lungo negli Stati Uniti, per cui si può dire che la cultura sportiva americana fa parte di me. Sono sempre stato appassionato di sport in generale, non solo di basket: questa mia passione mi ha portato, per esempio, a fondare la prima squadra di ciclismo universitaria alla Michigan State, nel 1965. Tornato in Italia, nel 1968, non potevo non notare le lacune del basket italiano: mancava una spinta, qualcosa che portasse la pallacanestro tra gli sport più amati del paese. All’epoca, ero molto amico, o meglio, ero un discepolo di Jim McGregor, primo vero procuratore americano in Europa, con il quale collaborai fino al ’72, girando il continente con la suq squadra di esibizione e  apprendendo tantissimo di questo mestiere. Siamo stati i primi a proporre i clinic in Italia, così come i camps. McGregor mi trasmise una passione per il basket tale da volerne fare il centro del mio lavoro. E se in un primo momento portavo i giocatori americani nel Vecchio Continente, con il passare del tempo osservai, durante le esibizioni, che il livello tecnico della pallacanestro europea era migliorato a tal punto che decisi di intraprendere il percorso inverso, ovvero esportare talenti europei negli Stati Uniti. All’epoca non c’era internet, giravano pochissimi video: è stato quindi fondamentale, in questo mio percorso, viaggiare, osservare dal vivo incontri e giocatori e notare così un’evoluzione nel gioco europeo. Il risultato è che oggi vediamo tantissimi europei sui parquet della NBA.

Lei ha vissuto intensamente, e quindi conosce bene, due facce della pallacanestro, quella americana e quella europea. Al di là del livello tecnico, come si pone a suo avviso la cultura cestistica italiana ed europea rispetto a quella statunitense? Esiste ancora un gap incolmabile tra queste due realtà?

Se parliamo di livello tecnico o di cultura cestistica, non trovo che ci siano grandissime differenze tra Stati Uniti ed Europa. Ciò che è ancora molto diverso è la mentalità, in particolare sotto l’aspetto del marketing: noi non vendiamo bene il nostro prodotto. In America le squadre di pallacanestro hanno dei budget eccezionali, frutto di un costante lavoro sul mercato, e non sono state depotenziate da quella crisi economica che in Europa ha invece mietuto tante vittime. Qui è la Federazione a pagare le televisioni per trasmettere le proprie partite, negli USA una cosa del genere sarebbe inaccettabile: la vendita dei propri diritti televisivi è la prima fonte di incasso, la mancanza di questi introiti rappresenta un problema fondamentale, comune non solo in Italia ma anche in tutta Europa. Non è sufficiente cercare investimenti attraverso cordate politiche o imprenditoriali: occorre creare un “prodotto pallacanestro” che faccia presa sul pubblico e possa essere venduto e pubblicizzato. Ma per far questo, bisogna cambiare la filosofia delle società e delle Federazioni, avvicinandosi maggiormente a quanto accade negli Stati Uniti, dove il basket, anche quello femminile, è una cosa seria. In Europa è un po’ come nel gioco del Monopoli: siamo fermi sulla casella del “Via”.

Dal punto di vista del marketing, quindi, la situazione del basket nostrano non è di certo rosea, ma trova tuttavia compensazione nel livello tecnico e in un dettaglio non di poco conto: la passione. E’ d’accordo con quest’affermazione?

Siamo stati bravissimi a coltivare talenti, considerando anche il fatto che le strutture di cui disponiamo non sono di certo le migliori, soprattutto se confrontate con quelle americane. La pallacanestro italiana si fonda sulla passione di tanti individui che fanno di questo sport la propria ragione di vita, con pochissimo se non addirittura nessun profitto personale. Negli Stati Uniti manca forse quest’aspetto: lì la passione va di pari passo con l’attenzione al business. Dal mio punto di vista, però, questa grandissima passione che hanno gli italiani e gli europei non rappresenta necessariamente un vantaggio: con tanto idealismo si perde forse un po’ di concretezza nella corretta gestione delle cose.

Lei è stato ed è ancora, attraverso la sua agenzia Interperformance, il procuratore di tantissimi giocatori di fama internazionale. Ce n’è qualcuno al quale si sente particolarmente legato?

Ho rappresentato tanti giocatori, ma se devo menzionarne uno su tutti non può che essere Manu Ginobili. Manu ha trascorso una vita con noi (è tutt’ora un nostro giocatore), iniziando da bambino: dall’Argentina è arrivato in Italia, dove nessuno o quasi lo voleva. Gli si trovò un posto in A2 a Reggio Calabria, e da lì iniziò la sua storia che lo ha portato a essere pian piano il top player che tutti conosciamo. Quello che mi piace di Ginobili è che nessuno al principio gli dava credito, ma era un giocatore molto duttile, in grado di seguire con umiltà le proposte che gli facevo, affidandosi molto alla mia esperienza in questo campo. Con lui sono riuscito ad attuare il progetto che mi ero riproposto, facendone un vero protagonista in NBA. Lo stesso progetto l’ho portato avanti con un altro pilastro, Toni Kucoc, che ho seguito da quando era giovanissimo fino al suo ritiro. Sono due giocatori che mi hanno dato un’enorme soddisfazione, due esempi che i giovani di oggi, a mio parere, dovrebbero seguire attentamente. È difficile oggi gestire bene i giovani atleti, sentono troppe “sirene”, molte delle quali interessate più alle proprie tasche che alla carriera dei giocatori.

A proposito di giovani: osservando i nostri campionati, ha individuato qualche prospetto italiano che ritiene possa essere adatto per caratteristiche tecniche a un futuro in NBA?

L’occhio sul basket italiano c’è, come c’è sempre stato, ma per mia sfortuna tra i tanti giocatori che ho rappresentato non ho mai avuto un italiano, e vivo questa cosa come un mio piccolo fallimento. Purtroppo nella pallacanestro italiana esistono tanti vincoli, contrattuali e legati al cartellino, che rendono questo lavoro particolarmente difficile e che quindi mi hanno fatto guadagnare mio malgrado l’etichetta di “procuratore degli stranieri”. In passato sono stato molto vicino a rappresentare Carlton Myers, un giocatore che reputavo perfetto per la NBA, ma lui non si affidò mai alla procura americana, preferendo restare in Italia: un vero peccato, poteva essere tra i primissimi italiani in NBA. Chissà che in futuro non cambi qualcosa e riesca a colmare questa mia lacuna.

Come vede il futuro della pallacanestro italiana?

Ho sempre in mente l’esempio della NBA, formidabile nel marketing, che monta molto i propri giocatori. Basti pensare agli stessi atleti italiani approdati negli Stati Uniti, i quali godono di uno status che qui difficilmente avrebbero raggiunto. Sogno un futuro migliore per l’Italia, ma la realtà è ancora ben lontana da ciò, siamo in una situazione di crisi profonda. Scendendo sotto la A1, quella del giocatore non è vista neanche più come una carriera professionistica, e questo danneggia, a mio parere, tutto il movimento cestistico. Ma, a questo punto, suppongo che dal fondo si possa solo risalire e mi auguro che accada presto!

a cura di Martina Borzì